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STORIA SEGRETA DEL MALE OSCURO pot

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Gary Greenberg
STORIA SEGRETA
DEL MALE OSCURO



Come tanti, anche Gary Greenberg ha provato in prima persona
l'inspiegabile e persistente calo d'umore, la vertigine da svuotamento
dell'Io, la contrazione allo stomaco che toglie ogni vitalità, l'angoscia di
non riuscire ad affrontare il giorno successivo, mentre l'orizzonte man
mano si contrae. E si è chiesto perché oggi la scienza abbia ricomposto
queste sofferenze in un quadro patologico chiamato "depressione". Una
malattia vera e propria, diagnosticabile e curabile come l'artrite o il
diabete, e diffusissima. L'ennesimo trionfo della medicina o piuttosto
l'apertura, attraverso la prescrizione in massa degli antidepressivi da
parte dei medici generici, di un immane mercato per le case
farmaceutiche?Cercando di vedere chiaro nel passaggio di rango
dell'antica melanconia, Greenberg procede con la impertinenza di chi sa
grattar via lo smalto dai paludati protocolli scientifici per accertare di
quale lega siano fatti. Si muove su un terreno familiare, da psicoterapeuta
e da paziente abituato all'oscurità del dolore. La sua inchiesta però non si
lascia contagiare dalla tristezza del proprio oggetto, anzi assume i toni
irresistibili della scorribanda rivelatrice, e alla fine del libro più trascinante
e documentato scritto sull’argomento i suoi dubbi diventano i nostri: l’idea
che l’infelicità sia riducibile a un difetto biochimico che una pillola è in
grado di riequilibrare, o a un vizio di pensiero che il terapeuta cognitivo
provvede a correggere, è solo funzionale a fabbricare nuova depressione
medicalizzata. Si vuole rimettere a nuovo il Sé senza fare i conti con l’unico
elemento pertinente, la storia personale. Così non possiamo che condividere
l’esortazione di Greenberg a «non lasciare che i medici della depressione ci
facciano ammalare».


Gary Greenberg svolge attività di psicoterapeuta nel Connecticut. I suoi
interessi sono rivolti in particolare agli intrecci tra scienza, politica ed etica, a
cui ha dedicato il saggio The Noble Lie. When Scientists Give the Right
Answers for the Wrong Reasons (2008). Collabora a «Harper’s Magazine»,
«The New Yorker», «Wired», «Discover», «Rolling Stone», «Mother Jones».

© 2010 Gary Greenberg

Titolo originale Manufacturing Depression. The Secret History of a Modern
Disease

Traduzione di Sara Sullam



Storia segreta del male oscuro















































Suona le campane che ancora possono risuonare / dimentica l’offerta
perfetta ogni cosa ha la sua fessura / è così che entra la luce

Leonard Cohen, Anthem


1.

Molluschi


Quando Betty Twarog apre la porta delle sue stanze nei sotterranei del
Darling Marine Laboratory della University of Maine, vieni investito da una
folata di aria salmastra e dal rumore assordante dell’acqua pompata dal porto
di Boothbay. L’acqua fischia, si vaporizza e gorgoglia nelle tubature, per poi
passare in grandi vasche scure piene di ricci, stelle marine e altre strane
creature, prima di finire nuovamente nel porto. In mezzo a questa confusione
provo a urlare le mie domande a Twarog, ma lei con una decisa scossa del
capo mi fa segno di tacere. Avrà paura, penso, che disturbi i suoi molluschi,
le larve di vongole e i pettini in gestazione nel secchio su cui è chinata. Mi
spiega che estrarre le dosi giuste da tre miscugli di alghe che ribollono nei
barili di plastica della stanza a fianco e darle in pasto ai suoi piccoli assistiti
richiede la massima attenzione. E allora continua per mezz’ora a lavorare in
religioso silenzio. È una donna esile, dritta come un fuso, ha i capelli lunghi
tirati all’indietro, con l’attaccatura a «punta della vedova». Si muove con la
disinvoltura di chi queste azioni le ripete da ormai cinquant’anni. A guardarla
non si direbbe, ma Betty Twarog ha settantasette anni.
Un’altra cosa che non si direbbe osservandola mentre si occupa dei suoi
molluschi è che Betty Twarog ha fatto una delle scoperte scientifiche più

importanti del ventesimo secolo, la scoperta che ha cambiato il corso delle
neuroscienze e della medicina e ha rivoluzionato il modo in cui pensiamo noi
stessi. Nel 1952, venticinquenne fresca di dottorato in un mondo di soli
uomini, inseguendo un’intuizione su un vecchio mistero irrisolto, Twarog
scoprì la serotonina nel cervello, e pose così la pietra angolare della
rivoluzione degli antidepressivi.
Non era certo quello che aveva in mente. In realtà, voleva solo
rispondere alla questione aperta nel 1884 da Ivan Pavlov – sì, proprio
quell’Ivan Pavlov – quando aveva fatto una breve incursione nel mondo degli
invertebrati.
1
Pavlov, che si trovava a Lipsia con una borsa di
perfezionamento, stava cercando di capire i segreti della digestione. Il
movimento del cibo attraverso il tratto alimentare è legato per lo più al
funzionamento dei muscoli lisci. Pavlov si propose di studiare il byssus
retractor, il muscolo liscio che il Mytilus edulis, la comune cozza, utilizza
per chiudere la propria valva. In particolare gli interessava capire come era
possibile che il mitile riuscisse a tenere chiuse le valve senza dissipare più
energia di quella che era in grado di assorbire.
Pavlov non rimase a lungo sul problema. Nel solo articolo che pubblicò
sull’argomento prima di riprendere le ricerche che lo portarono al Nobel (e al
successivo interesse per i riflessi di salivazione nei cani) accennò solo una
risposta. Settant’anni più tardi Betty Twarog, per ragioni che lei stessa fatica
ancora a spiegare, non seppe resistere al fascino di quel mistero irrisolto. Era
convinta di avere la soluzione: ma era troppo bello per essere vero, troppo
fuori dagli schemi per essere credibile. Finché la Abbott Pharmaceuticals le
offrì i mezzi per risolvere il caso.
La Abbott aveva spedito campioni di un composto appena sintetizzato a
scienziati affermati di tutto il paese, tra cui John Welsh, maestro di Twarog a
Harvard. La molecola non aveva ancora un nome o, per essere più precisi, ne

aveva diversi. I chimici la chiamavano 5-idrossitriptamina, per la sua
struttura molecolare. Per alcuni biologi si chiamava invece enteramina,
perché era stata trovata nell’intestino di polipi e calamari; mentre per quelli
che l’avevano trovata nel sangue era serotonina. La casa farmaceutica aveva
chiesto agli scienziati di studiare quei campioni per capire di che cosa si
trattasse esattamente, quali fossero gli effetti di quella molecola e come
potesse essere usata. Dal nuovo composto, la Abbott sperava di ricavare un
farmaco o un agente farmacologico. Non aveva neanche lontanamente idea di
quello in cui si era imbattuta.
Twarog però un’idea ce l’aveva, o almeno così pensava. A suo parere,
Pavlov si era avvicinato alla soluzione ben più di quanto credesse. «La cosa
stupefacente» mi ha detto «è che ancora oggi è l’articolo di Pavlov a spiegare
il controllo di questi muscoli. Pavlov insisteva sul fatto che si contraggono in
seguito a una stimolazione nervosa e che rimangono contratti finché non
ricevono un segnale contrario dal sistema nervoso parasimpatico». Ciò
significava che la cozza non blocca il suo byssus per poi stringere forte, come
si stringe un pugno attorno a qualcosa; al contrario, chiude la valva, come un
lucchetto, finché non arriva un segnale che la apre, come una chiave.
A differenza di Pavlov, Twarog poté beneficiare di una scoperta fatta
nel 1921 da uno scienziato tedesco, Otto Loewi, che stava studiando il modo
in cui i nervi trasmettono i segnali ai muscoli. Loewi si era chiesto se si
trattasse di un processo esclusivamente elettrico o se fosse mediato in
qualche modo da agenti chimici. La notte di Pasqua, raccontava Loewi, la
soluzione gli era venuta in sogno. Si era quindi precipitato in laboratorio per
estrarre i cuori da due rane e immergerli separatamente in acqua salata, dove
avrebbero continuato a battere. Aveva lasciato attaccati i nervi che
controllano la frequenza del battito: il nervo vago, che la rallenta, e il centro
cardio-acceleratore che fa l’opposto, come dice il nome. Con una batteria
aveva trasmesso una scarica elettrica al nervo vago: il cuore aveva rallentato,
proprio come si aspettava. Poi aveva preso dell’acqua salata dalla stessa

vasca e l’aveva fatta gocciolare nella soluzione in cui era immerso l’altro
cuore. Quando anche quel cuore aveva rallentato senza alcuno stimolo
elettrico, Loewi aveva potuto concludere che a rallentare il cuore era stato un
agente chimico rilasciato dal nervo vago e non l’elettricità. Aveva ripetuto
l’esperimento sul centro cardio-acceleratore, ottenendo lo stesso risultato, e
alle cinque del mattino del lunedì di Pasqua il principio della
neurotrasmissione chimica era stato dimostrato.
Quando Twarog cominciò a interessarsi alle cozze il principio di Loewi
era già noto, ma gran parte degli scienziati credeva che gli agenti chimici del
tedesco – l’acetilcolina e l’epinefrina – fossero gli unici due
neurotrasmettitori. Invece Twarog era sicura che ce ne fosse un altro – quello
che usava la cozza per chiudere e schiudere la sua valva – e sospettava che si
trattasse dell’agente chimico che la Abbott aveva mandato in giro.
Nel maggio del 1952 Twarog e Welsh diposero alcune cozze su un
tavolo da laboratorio. Non appena la serotonina Abbott le colpì, il byssus
retractor si ritrasse. Twarog aveva ragione: era la serotonina il
neurotrasmettitore mancante.
Un nuovo neurotrasmettitore era una novità inquietante per l’ortodossia
scientifica. Nulla però in confronto alla conclusione a cui era giunta Twarog,
che sfiorava l’eresia: la scienziata sosteneva infatti che la serotonina si
trovava anche nel cervello dei mammiferi, e quindi, naturalmente, nel
cervello umano. A quei tempi la maggior parte dei biologi riteneva che gli
esseri umani fossero diversi dal resto del mondo animale e che il cervello
fosse diverso dal resto del corpo. Pensavano che i segnali elettrici saltassero
da una parte all’altra del cervello come scintille, il che significava tornare
all’idea cartesiana della ghiandola pineale che invia messaggeri eterei per
connettere l’anima al corpo.
Per Twarog un ragionamento di questo tipo era «pura idiozia
intellettuale». Non aveva alcun senso dal punto di vista scientifico: «quale
poteva mai essere la differenza tra il cervello e il resto del corpo?», mi ha

chiesto, ancora incredula dopo tanti anni. «Tuttavia secondo i biologi i nervi
funzionavano in quel modo, a prescindere dalla loro collocazione». E, cosa
forse più importante, quel ragionamento lasciava a desiderare anche dal
punto di vista filosofico. «Hai presente la poesia di Tennyson Fiore in un
muro screpolato?» Me l’ha recitata a memoria: «Fiore in un muro screpolato,
/ ti strappo dalle fessure, / ti tengo qui, radici e tutto, nella mano, / piccolo
fiore – ma se potessi capire / che cosa sei, radici e tutto, e tutto in tutto, /
saprei che cosa è Dio e cosa è l’uomo».
Due anni più tardi Twarog si trasferì nell’Ohio per seguire il marito, che
aveva ottenuto un posto all’università. Non si voleva dare per vinta e fece
domanda per lavorare con Irvine Page, un medico della Cleveland Clinic che
stava studiando il ruolo della serotonina nella regolazione della pressione
sanguigna. Il giorno del colloquio pioveva a dirotto e, ricorda, «sembravo
uno di quei trofei che i gatti ti portano in casa». Ancora fradicia, Twarog
descrisse a Page le sue condizioni di lavoro ideali: un laboratorio, un
assistente e il tempo per studiare la distribuzione della serotonina nel
cervello. Lui la sottopose a un terzo grado – in fondo, la sua ipotesi
contraddiceva tutto ciò che gli era stato insegnato sul sistema nervoso – ma
alla fine le concesse un tavolo e un tecnico. Nel giro di un anno Betty Twarog
aveva trovato la serotonina nei cervelli di ratti, cani e scimmie.
Il suo primo articolo – quello sull’esperimento di Harvard – fu
pubblicato solo nel 1954.
2
Non era stata neanche ricontattata dall’editor del
«Journal of Cell Physiology» – Detlev Bronk, rettore della Johns Hopkins
University – finché John Welsh, il suo professore di Harvard, non aveva
chiamato per informarsi sull’articolo. Bronk era stato categorico: non avrebbe
certo chiesto ai suoi colleghi di valutare un articolo di pure congetture su un
argomento così importante, per di più scritto da un’emerita sconosciuta. In
realtà, mentre l’articolo ammuffiva sulla scrivania di Bronk, altri scienziati

più affermati di Twarog giungevano a conclusioni simili alle sue sulla
serotonina. Una volta pubblicati i loro risultati, allora Twarog poté dire la
sua. La stessa sorte toccò all’articolo scritto con Irvine Page
3
sulla serotonina
cerebrale, che dovette aspettare che i pezzi grossi si pronunciassero. Oggi
però nessuno contesta il fatto che sia stata lei la prima a fare entrambe le
scoperte.
Betty Twarog tornò presto al suo primo amore, la biologia marina. Nel
frattempo molti altri continuarono a studiare la biologia della
neurotrasmissione, e nel giro di un decennio stabilirono che l’elettricità in
realtà non vola da un neurone all’altro come gli angeli, ma che il cervello
funziona su base chimica, come il resto del corpo. Ancora oggi, a distanza di
più di mezzo secolo, nuovi neurotrasmettitori continuano a comparire sotto il
microscopio, e le particolarità del loro metabolismo sono tuttora in fase di
studio.
Nessuna di queste scoperte risulterebbe interessante al di fuori dei
laboratori, se non fosse per alcune fortuite osservazioni fatte nei primi anni
cinquanta. Per esempio, che un farmaco antitubercolotico capace di indurre
un’inattesa (ma non sgradita) euforia inibiva un enzima che abbatteva il
livello di serotonina; o che l’LSD (lysergic acid diethylamide, dietilammide
dell’acido lisergico), già famoso per i suoi profondi effetti sulla coscienza,
presentava una struttura chimica simile alla serotonina. Sulla base di queste e
altre scoperte, gli scienziati iniziarono a elaborare una teoria: e cioè che la
malattia mentale in generale, e la depressione in particolare, sono causate da
«squilibri» dei neurotrasmettitori, specialmente della serotonina. Non è
difficile immaginare quale interesse una simile teoria poteva avere per le
industrie farmaceutiche. Già nel 1958 furono immessi sul mercato farmaci
studiati per curare la depressione agendo su questi supposti squilibri. Nel
1987 fu introdotto il Prozac. Ventidue anni dopo sono più di trenta milioni gli

americani che fanno uso di antidepressivi – la maggior parte dei quali agisce
sulla serotonina – per un costo annuo di più di dieci milioni di dollari:
4
un
successo oltre ogni aspettativa, che la Abbott non si sognava minimamente
quando inviò la serotonina al laboratorio di John Welsh.


Così iniziano le più belle storie scientifiche: con una scoperta casuale
che porta un grande cambiamento nella nostra vita quotidiana. Ecco
l’impresa di Betty Twarog: prendi un’idea geniale, una grande
determinazione e una buona dose di fortuna; mettici l’evidente contrasto tra
la mancanza di notorietà e la portata della scoperta; aggiungici una scienza
appassionante, e alla fine avrai non solo una grande storia, ma anche un
ottimo esempio del modo in cui gli scienziati ci portano sul Parnaso, in
questo caso le vette della felicità e della salute. Una buona storia scientifica
ha il potere di farci sentire ottimisti riguardo al progresso e alle sorti
dell’umanità.
Non è il genere di storia che racconterò in questo libro.
Gli antidepressivi non sono tra le scoperte che contribuiscono senza
ambiguità al miglioramento della nostra specie. Probabilmente il sospetto ti
era già venuto. Chi non è vissuto fuori dal mondo nell’ultimo mezzo secolo, e
specialmente negli ultimi vent’anni, sa che «serotonina» è un termine entrato
nel lessico di tutti i giorni, e che il Prozac e i suoi parenti chimici – conosciuti
come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o SSRI (selective
serotonin reuptake inibitors) – sono diventati il primo prodotto che gli
americani tengono nell’armadietto dei medicinali. E le controversie che sono
seguite sono altrettanto note. Sicuramente sono state argomento di
conversazione con amici e parenti – o con te stesso, quando ti sei chiesto se la
tua felicità o le tue preoccupazioni non fossero segni di quella malattia

chiamata depressione, o quando il medico ti ha staccato una ricetta e hai
esitato a comprare i farmaci. Oppure quando hai preso una pillola, ti sei
sentito meglio, e ti è venuto spontaneo chiederti : «Ma che vorrà dire?»
Probabilmente, da tutte queste discussioni sei uscito più confuso di prima,
perché una cosa che gli antidepressivi non fanno è porre fine alla confusione
sugli antidepressivi. Ci vorrebbe un altro farmaco per questo.
E anche un altro libro. E non sarò certo io a tirarti fuori dalla
confusione. In parte perché la confusione su cui mi concentrerò non riguarda
tanto i farmaci quanto le patologie che si propongono di curare, la malattia
della depressione. Ma anche perché chi si prende il rischio di leggere un libro
di uno psicoterapeuta vecchio stile come me deve essere pronto ad accettare
una certa dose di confusione. Sono infatti convinto che quando in ballo ci
sono questioni importanti e complesse la cosa migliore sia rimanere
nell’incertezza il più a lungo possibile, convivere con un conflitto interiore
piuttosto che porvi fine, resistere a se stessi invece di diventare un altro,
capire come si sia arrivati a un momento importante e non infilare la testa
sotto la sabbia per tirare a campare.
Lo snodo a cui tutti noi siamo giunti è cruciale. In questo libro mostrerò
come ci siamo arrivati, come siamo arrivati a un momento nella nostra storia
in cui è normale, se non obbligatorio, considerare l’infelicità una malattia. E
non solo: proverò a convincerti che quando si parla di antidepressivi e dei
disturbi che curano, la domanda da porsi non è soltanto se sia il caso di
prendere una pillola contro l’infelicità, o se sia una buona idea chiamare
l’infelicità «depressione clinica». La posta in gioco è alta: ne va di noi, di
quello che siamo e di quello che vogliamo essere, del significato della nostra
umanità.


Se ti sembra già troppo, ascolta che ne pensa Peter Kramer.
Una delle cose più strane nella rivoluzione degli antidepressivi, un

indizio del fatto che non si tratti di pura biochimica, è che i farmaci che
l’hanno scatenata – quegli SSRI che fecero la loro prima apparizione negli
Stati Uniti nel 1988 – non sono più efficaci di quanto lo fossero quelli
appartenenti alla generazione di farmaci inventati all’indomani della scoperta
di Betty Twarog.
5
E non è che siano molto efficaci. Il più delle volte, anzi,
negli esperimenti clinici, non danno risultati migliori dei placebo.
6
Nella vita
reale (che in genere dura più a lungo di un esperimento e in cui si può
modificare il dosaggio e cambiare la marca) sembra che abbiano effetti
positivi circa nel 60 per cento dei casi. Viene da pensare che, se la
depressione fosse davvero un fatto biochimico e se i farmaci fossero davvero
mirati sulle cause responsabili, funzionerebbero meglio di così. Certo, la
prima ipotesi è astratta: nonostante gli sforzi – e nonostante ciò che i medici
raccontano ai loro pazienti quando prescrivono degli antidepressivi – gli
scienziati devono ancora trovare anche una sola anomalia cerebrale correlata
alla depressione, per non parlare di una che ne sia la causa.
Le ragioni che spiegano il boom degli antidepressivi nonostante queste
scomode verità sono tante. Certo uno dei fattori più importanti è stato il libro
di Kramer La pillola della felicità,
7
che è andato a ruba a metà degli anni
novanta, più o meno nello stesso periodo in cui le prescrizioni di Prozac
cominciavano a invadere i ricettari. E non credo si tratti di una coincidenza.
Kramer diede voce a qualcosa di cui tutti noi – pazienti, parenti e amici,
medici e industrie farmaceutiche – avevamo bisogno: una giustificazione
credibile per l’assunzione di farmaci il cui effetto principale era farci stare
meglio con noi stessi. La pillola della felicità ha indubbiamente contribuito a

spianare la strada agli antidepressivi.
Kramer esordisce come molti altri sull’argomento: a tentoni, con
l’atteggiamento di chi sta cercando qualcosa, senza mai sbilanciarsi troppo.
Ma una volta preso l’abbrivio, la sua tesi a favore dell’assunzione di farmaci
– non solo per curare la depressione, ma per «ricostruire il Sé», come recita il
sottotitolo originale del libro – acquista forza, si trasforma in una moderata
ma inequivocabile apologia. E se qualche perplessità sorge già sul titolo – la
Eli Lilly non avrebbe potuto chiedere di meglio per il lancio del prodotto – il
fatto che l’approvazione venisse non da un pubblicitario ma da un esperto
neutrale, da un testimone oculare della rivoluzione, sensibile, onesto – uno
che scrive bene – non ha fatto che aumentare il favore nei confronti dei
farmaci.
La pillola della felicità si chiude con una profezia. Dopo aver speso il
meglio delle precedenti trecento pagine scervellandosi sulle implicazioni del
ricorso ai farmaci per risolvere i propri problemi, Kramer arriva alla
conclusione che farsi domande del genere è ormai ozioso:


Per adesso, farsi delle domande sulla virtù del Prozac … suona come se
ci stessimo chiedendo se per Freud sia stata una buona cosa scoprire
l’inconscio. Una volta che siamo consapevoli dell’inconscio – una volta che
abbiamo assistito agli effetti del Prozac – è impossibile immaginare il mondo
moderno senza di loro. Come la psicoanalisi, il Prozac esercita la propria
influenza non solo interagendo con i singoli pazienti, ma anche attraverso il
suo impatto con il pensiero contemporaneo. Col tempo, credo che arriveremo
a scoprire che la psicofarmacologia moderna è diventata, proprio come la
psicoanalisi ai tempi di Freud, lo scenario culturale teatro della nostra vita.
8




Gli effetti collaterali più significativi degli antidepressivi, dice Kramer,
sono il modo in cui cambiano la concezione di noi stessi. La loro azione non
si limita quindi alla neurochimica, ma all’importanza che le attribuiamo. A
questo punto, non ha senso interrogarsi sulle virtù di questi farmaci, non più
di quanto non ne avrebbe chiedersi perché d’inverno faccia freddo. È un
finale ironico per un libro che dice ben poco oltre a esaltare le virtù del
Prozac, e che tanto ha fatto per anticipare quel «clima di opinione» nel quale
pensiamo alla nostra infelicità come a una malattia.
Kramer ha preso a prestito l’espressione «clima di opinione» dall’elegia
di W. H. Auden, In memoria di Sigmund Freud. Freud, scriveva Auden, non
era più soltanto una persona: «Egli in silenzio accompagna la nostra crescita;
/ si dilata al punto che gli stanchi perfino / nel più remoto e infelice ducato /
sentono il cambiamento nelle ossa e si rallegrano».
9

C’è stato un tempo – e non erano secoli fa – in cui le persone non si
sentivano la «depressione» nelle ossa, in cui i centri per il controllo delle
malattie non definivano la depressione «il comune raffreddore della malattia
mentale»,
10
in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità non sosteneva che
la depressione fosse «la maggiore causa di disabilità … e il quarto fattore che
contribuisce alla spesa globale per le malattie».
11
Può darsi che i medici siano
diventati più bravi a riconoscere la depressione, o che la vita oggi esiga
troppo da noi e che quindi la neurochimica ereditata con la selezione naturale
non basti più. O forse sono il riscaldamento globale, uno stato di guerra
diffuso, il collasso economico mondiale, insomma, queste condizioni

irreversibili, a farci ammalare di preoccupazione. Certo, tutte queste
spiegazioni per l’apparente epidemia di depressione hanno un fondo di verità.
Ma c’è un’altra spiegazione possibile: ogni clima di opinione ha la sua
particolare forma di maltempo. La depressione clinica – l’infelicità fatta
malattia – è la nostra.


I climi di opinione non sono calati dall’alto. Se così fosse, se la scoperta
di Betty Twarog avesse semplicemente portato a un cambiamento
improvviso, a un cataclisma nel modo in cui pensiamo alla nostra infelicità e
ai modi per gestirla, allora nel 1995 non sarebbe mai scoppiato il dibattito tra
David Wong e Arvid Carlsson sulle pagine di «Life Sciences». Wong, lo
scienziato della Eli Lilly che scoprì per primo la formula del Prozac, affermò
tra le righe che il suo farmaco era stato il primo SSRI;
12
un’affermazione che
Carlsson, vincitore del Nobel per il suo lavoro pionieristico sulla
neurochimica del morbo di Parkinson, non gli lasciò passare. Carlsson sapeva
il fatto suo, perché aveva inventato il primo SSRI, lo zimeldine, che la casa
farmaceutica svedese Astra Zeneca aveva immesso sul mercato come
antidepressivo sotto il nome di Zelmid nel 1982, cinque anni prima del
Prozac. La rivista fu obbligata a ritrattare e a pubblicare le proprie scuse.
La ragione per cui l’affermazione avventata di Wong era sfuggita agli
editor di «Life Sciences» – la stessa per la quale con tutta probabilità nessuno
ha mai sentito parlare dello Zelmid – è che la Astra non prese mai troppo sul
serio il proprio farmaco, non lo considerò una gallina dalle uova d’oro. O
almeno così viene da pensare, dato che alla vigilia della sua introduzione
negli Stati Uniti, quando cominciò a sembrare che i pazienti che assumevano
Zelmid fossero soggetti a contrarre una rara neuropatia, la sindrome di
Guillain-Barré, la Astra decise di non affrontare gli studi necessari per capire

quale fosse la connessione. Si limitò a ritirare il farmaco dagli scaffali. I
dirigenti dell’industria non pensavano che per un antidepressivo ci fosse
abbastanza mercato da giustificare tali studi agli occhi degli azionisti. O, per
dirla in un altro modo, non pensavano che nel mondo ci fossero abbastanza
depressi.
A giudicare dalla propensione dell’industria a investire ingenti somme
di denaro per minimizzare la connessione tra farmaci, violenza e suicidi,
sembra che questo non sia più un problema.
Il cambiamento climatico è lento e impercettibile e, una volta avvenuto,
una volta che ci si è dentro fino al collo, è invisibile. A ben guardare, però, è
difficile non accorgersene.
Ad esempio, mettiamo che tu non riesca a superare un blocco o una
perdita; sei preoccupato, inquieto, incline al pianto, rifiuti il sesso e altri
piaceri, mangi troppo e dormi poco. Insomma, non ti godi più la vita come
prima. E diciamo che sei restio a pensare di avere una malattia, ma, d’altra
parte, sei stufo marcio di sentirti così, e in una notte insonne, navigando in
internet, finisci su depressionisreal.org, una coalizione formata da «sette
gruppi di medici affermati, avvocati e semplici cittadini che hanno unito le
forze per informare le persone sulla vera natura della depressione e sui modi
per vivere con successo anche soffrendo di questa malattia le cui cause sono
biologiche».
13
Puoi scaricare un podcast del Down & Up Show che promette
di «distinguere tra realtà e invenzione» sulla depressione; o scoprire i tassi di
depressione negli Stati Uniti; leggere di donne e depressione, di depressione e
comunità ispaniche; o scaricare un calendario che tiene traccia dell’umore; o
addirittura fare un test che ti dice se sei depresso o meno. Se il responso è
positivo, ti vengono date indicazioni su chi contattare il giorno dopo oppure
puoi, con un click, farti consolare in diretta da Paul Greengard, un medico
che, si dà il caso, ha condiviso il premio Nobel con Arvid Carlsson. In

camice bianco, Greengard ti rassicura con questo messaggio:


C’è chi sostiene che la depressione sia tutta nella tua testa. Giusto. Ma
anche sbagliato. Giusto perché la depressione è nella testa, o, più
precisamente, nel cervello. Anzi, abbiamo visto come distrugge le
connessioni tra cellule cerebrali.
Ma dire che la depressione è tutta nella tua testa è anche sbagliato. Non
c’è nulla di immaginario nella depressione. È una patologia grave, che ha
ripercussioni su ogni aspetto della salute di una persona.
14

E Greengard non è il solo medico – e nemmeno il solo Nobel – a
lanciare questo messaggio, che ha saturato la cultura popolare americana a tal
punto da non poter essere ignorato. E qualche effetto positivo l’ha avuto.
L’idea per cui la depressione è una patologia curabile ha permesso alle
persone di rivolgersi al medico per parlare della propria sofferenza, una
sofferenza cui altrimenti difficilmente avrebbero trovato rimedio. La stessa
idea ha evitato suicidi, ha tenuto unite famiglie, ha aiutato persone a non
perdere la propria produttività. E ha avuto enormi benefici sulla ricerca
neuroscientifica : proprio il fatto che l’industria fosse interessata a studiare
farmaci che curassero la depressione ha aperto i forzieri ai ricercatori che
studiano il funzionamento del cervello.
Ciò nonostante, c’è qualcosa che, se non si può dire esattamente
immaginario, nella depressione è del tutto inventato. Greengard lascia solo
due scelte: che la depressione sia vera, il che nel linguaggio corrente significa
che è il risultato di eventi a livello neurochimico; o che sia falsa, cioè un
prodotto della nostra immaginazione malata e della nostra scarsa
determinazione. Così facendo trascura però una terza possibilità: cioè che
non sia creata da noi, ma per noi; che la depressione – o almeno la versione

che ce ne sta dando Greengard – sia fabbricata ad arte.
La depressione è sicuramente un malanno, alla cui base, in alcuni casi,
può esserci senz’altro una specifica, anche se ancora sconosciuta, patologia
cerebrale: una malattia, nel senso comune della parola. È un’idea forte e allo
stesso tempo affascinante : se siamo, diciamo così, infelici, allora vuol dire
che soffriamo di una malattia cerebrale, che in linea di principio non è
diversa da qualsiasi altra malattia. Quest’idea si è affermata, è diventata parte
del modo in cui pensiamo noi stessi, parte dell’incessante chiacchiericcio
nella nostra testa (o nei nostri cervelli?), il metro di giudizio con cui
misuriamo la nostra vita.
«Sono abbastanza felice?» È una domanda che presiede alla riflessione
americana sul Sé da quando Thomas Jefferson dichiarò che gli Stati Uniti
erano il primo paese sulla faccia della terra votato alla ricerca della felicità.
«Forse non sono abbastanza felice perché sono malato?», invece, è una
domanda sorta negli ultimi vent’anni. In questo senso la depressione è
fabbricata ad arte: non come malattia, ma come una vera e propria idea sulla
sofferenza, sulla sua origine e su come alleviarla, insomma su chi siano
coloro che questa sofferenza la vivono e su chi invece saranno una volta
guariti. Senza quest’idea di fondo, il mercato degli antidepressivi sarebbe
relativamente piccolo. Grazie a questa idea, invece, il mercato degli
antidepressivi è praticamente illimitato.


Il mio primo attacco di depressione iniziò nel 1987, in concomitanza
con la fine del mio primo matrimonio. Non che non volessi il divorzio. Anzi,
l’idea era stata mia, un’idea espressa nel più classico e nondimeno ignobile
dei modi: mi ero innamorato di un’altra. Ora ripenso a quella trasgressione
come a un peccato benedetto, visto che il mio tradimento aveva tirato fuori
me e mia moglie da una disperazione alla quale nessuno dei due sembrava
avere il buon senso di porre fine. Eravamo come due comete che si erano

scontrate nel profondo spazio interstellare. La collisione ci aveva ormai
esauriti, non rimanevano che freddo e oscurità e, almeno da parte mia, un
opprimente mucchio di rimproveri a me stesso.
Avevo trent’anni, di giorno facevo lo psicologo e di notte studiavo per
il dottorato in psicologia, e verrebbe naturale pensare che a un certo punto –
quando mi ritrovai steso sul pavimento a fissare per ore i granelli di polvere
che si muovevano attraverso i raggi del sole (giusto perché incrociavano il
mio sguardo, perché guardare qualsiasi altra cosa o chiudere gli occhi e
guardare il buco nero che avevo dentro sarebbe stato uno sforzo troppo
grande), dilaniato da un dolore non meglio specificato, come se fossi ridotto a
un arto fantasma, pensando alla pubblicità del telefono salvavita, quella in cui
uno cade e non riesce a rialzarsi – verrebbe da pensare, insomma, che giunto
a tal punto mi sia venuto in mente di essere depresso. A ben pensarci, l’idea
mi sfiorò anche. Ma nel 1987 «depresso» non significava ancora ciò che
avrebbe significato nei vent’anni successivi. Allora si trattava solo di una
definizione comoda, qualcosa da dire a un amico o a se stessi, una scorciatoia
che lasciava i dettagli – la sindrome dell’arto fantasma, i granelli di polvere,
il telefono salvavita – all’immaginazione. Ora è una malattia.
A dire il vero, la depressione era già una malattia nel 1987; solo che
non era così ben conosciuta. È entrata ufficialmente nella lista delle malattie
più o meno nella sua attuale formulazione a partire dall’uscita, nel 1980, della
terza edizione del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali della
American Psychiatric Association.
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Il DSM (come viene chiamato il
manuale dagli addetti ai lavori) è un compendio di disturbi psicologici
ripartiti in gruppi (disturbi affettivi, disturbi legati all’uso di sostanze, disturbi
psicotici) a loro volta suddivisi in tipi di diagnosi (disturbi depressivi
maggiori, dipendenza da alcol, schizofrenia). Si tratta di uno strumento
indispensabile al mercato delle cure. Non soltanto fornisce una tassonomia

dei disturbi mentali, che dà a noi terapeuti la possibilità di scambiarci pareri
in modo sintetico e di farci sentire appartenenti a un’unica corporazione; ma
assegna anche a ogni tipo di angoscia un codice a cinque cifre. Scritto su una
ricetta, quel numero magico apre i forzieri delle assicurazioni, garantendo
che, siccome noi terapeuti siamo effettivamente impegnati a curare una
malattia, e non stiamo, per dire, seduti in poltrona a svelare alla gente il senso
della vita, saremo pagati per il disturbo che ci prendiamo. Questo è il motivo
per cui l’edizione corrente del DSM (la quarta, e la quinta è prevista per il
2013) si trova sugli scaffali della quasi totalità dei terapeuti, me compreso.
Come opera letteraria il DSM è impagabile. Fornisce una
rappresentazione della sofferenza senza nulla dire sulla sua origine, su che
cosa significhi, o sui possibili rimedi. Sembra che i suoi autori se ne siano
stati su Marte a osservare il nostro scontento con il telescopio.
Come si vedrà più avanti, è proprio ciò che gli autori della terza
edizione, che si discostava radicalmente dalle prime due, avevano in mente.
Si proponevano di innescare una rivoluzione nella psichiatria, una disciplina
che in precedenza non aveva avuto remore nel rilasciare dichiarazioni su
assunti ritenuti teorici (nelle parole di alcuni, metafisici) circa l’origine, la
natura e le cause del disagio mentale. Ci vollero circa dieci anni, e
l’introduzione di alcuni nuovi farmaci, perché la rivoluzione fosse completa,
almeno per quanto riguarda la depressione. Se il mio episodio fosse avvenuto
dieci anni più tardi, avrei avuto molte più probabilità di raggiungere il
telefono salvavita, di ricevere diagnosi e cure appropriate e di entrare nelle
statistiche del CDC (Center for Disease Control and Prevention) e dell’OMS.
In linea di principio, non mi sarei sottratto a questo percorso ; anzi,
come dirò più avanti, le pillole (anche se non quelle che uno si aspetterebbe)
mi aiutarono finalmente a rimettermi in carreggiata. Solo che semplicemente
non mi venne mai in mente di ritenermi malato. Pensavo di essere precipitato
in un disastro esistenziale di cui la mia infelicità era la naturale conseguenza,
proprio come se mi fossi tirato una martellata sul dito ritrovandomi ferito,

dolorante e molto arrabbiato con me stesso. Temevo che non ne sarei mai
uscito, che sarei rimasto solo per sempre, che le mie finanze non si sarebbero
mai risanate, che il mio divorzio fosse un’iniziazione alle difficoltà della vita
reale. Parlai di questo e altro durante le mie sedute di psicoterapia, e mi resi
conto di una serie di cose che non avevo mai voluto sapere su me stesso, mi
meravigliai di come alcuni capitoli a lungo (e per fortuna) dimenticati della
mia vita si fossero abilmente insinuati nel mio risveglio esistenziale, della
malafede di cui ero capace e del dolore che poteva causare in me e negli altri;
ma né io né il mio terapeuta, a quanto mi ricordi, parlammo mai di me come
di un malato. Qualunque cosa avessi, sembrava solo un brutto episodio che
dovevo sopportare, o a cui almeno dovevo abituarmi, mentre facevo del mio
meglio per superarlo.
Non è che non pensassi alla depressione come a una malattia, almeno
sul lavoro. Ma associavo quella depressione a pazienti come Evelyn. Una
donna già in lacrime la prima volta che andai a chiamarla in sala d’aspetto;
mi disse che la sua vita era una continua agonia. Ogni conquista si
trasformava in una punizione, e i suoi successi professionali, l’amore della
sua famiglia, persino il sole che stava sorgendo in quella bellissima giornata
di primavera, la facevano solo stare peggio. Si credeva una specie di
Frankestein, che se ne sta fuori dalla finestra a guardare la famigliola di
umani che vive felice e contenta al calduccio, dentro casa. Mi disse di essersi
rivolta a me perché aveva di recente accettato un invito per una vacanza
gratuita alle Hawaii, e, man mano che la data si avvicinava, era sempre più
attanagliata dalla paura. «È per le aspettative di godersela come chiunque
altro, e per la luce, per quel sole onnipresente, che di sicuro mi annienterà»
mi disse. «So che non si potrebbe desiderare di meglio, e che per me invece
non è abbastanza, è per questo che mi odio ancora di più». Si fermò, mi
guardò fisso negli occhi e mi disse a bassa voce, quasi bisbigliando: «Spero
che quel cazzo di aereo precipiti».
Poi venne Ann, la biologa che aveva messo fine a una promettente

carriera da ricercatrice per sposare un camionista che la picchiava e che
l’aveva lasciata, portandosi via loro figlio. Era certa di meritarsi tutto,
insieme a qualunque altro fallimento o cosa indegna, e la sua giornata poteva
dirsi rovinata se qualcuno le faceva un complimento. Era una fine
conoscitrice del disagio, aveva più termini per descrivere il proprio umore
malinconico di quanti ne abbiano gli eschimesi per la neve, si torceva le mani
senza sosta e versava fiumi di lacrime mentre parlava, ma si mostrava sempre
sorpresa quando mettevo in luce questi aspetti o esprimevo le mie
preoccupazioni a riguardo. E non era solo sorpresa: mi diceva spesso che il
solo fatto che le prestassi quell’attenzione e che la apprezzassi le sembrava
essere un punto a mio sfavore.
O Barbara, che una notte mi chiamò per chiedermi: «Mi devi dire
perché. Dammi una ragione per cui soffro tanto». Le risposi che sapevo che
soffriva, che l’avrei ascoltata, che le sarei stato vicino e mi sarei alzato nel
bel mezzo della notte per consolarla, che le avrei ricordato tutte le persone
che le volevano bene, tutte le cose che voleva ancora fare, ma che oltre a
questo non potevo fare altro e nemmeno darle ciò che mi stava chiedendo. La
mattina successiva era morta, sdraiata accanto a una di quelle persone che le
volevano bene. Overdose di antidepressivi.
Questo è il disturbo da depressione come lo vedevo allora : duro,
debilitante e mortale, senza alcuna relazione con le circostanze esterne,
refrattario alla consolazione (per non parlare delle cure) – e, per fortuna, raro.
Ferito com’ero, la mia sofferenza – e quella della maggior parte dei miei
pazienti – sembrava lontana anni luce dalla sofferenza di quelle persone, e
sicuramente non ricadeva nella stessa categoria diagnostica. Il che non
equivale a dire che i miei pazienti e io non fossimo infelici – altrimenti
perché avremmo perso tempo e denaro per lamentarci con i terapeuti delle
nostre vite? – ma non mi sembrava (e, a quanto ne so, non sembrava neanche
a loro) che avessimo una depressione.
Almeno così pensavo al tempo. Ora, può essere che non mi volessi

includere nella categoria dei malati mentali; dopo tutto, quando si tratta di
diagnosi, la maggior parte di noi terapeuti è molto più brava ad appiopparla
che ad accettarla per sé. Può anche essere che, non avendo in mente la
depressione, non la riconoscessi se non nei casi più drammatici. Se così
fosse, gli ultimi vent’anni, in cui è diventato inconcepibile per addetti ai
lavori e gente comune non considerare l’infelicità un sintomo, costituirebbero
un trionfo senza precedenti per la sanità pubblica.
Potrebbe anche essere, però, che la depressione si sia diffusa come
Wal-Mart, colonizzando porzioni sempre maggiori di terreno psichico, e che,
proprio come Wal-Mart, questa rapida proliferazione di diagnosi, a
prescindere dalla loro utilità e dalle loro ricadute economiche, sia la sua
forma di pestilenza. Forse l’epidemia di depressione non è tanto dovuta alla
scoperta di una malattia a lungo ignorata, ma alla riconsiderazione in termini
di malattia di una larga sezione dell’esperienza umana. In questo senso, la
depressione è una malattia culturalmente trasmissibile, per cui il contagio non
avviene tramite qualche microbo o gene, ma attraverso un’idea trasmessa da
mezzi più o meno raffinati, tra cui, ad esempio, la pubblicità per i farmaci
con obbligo di ricetta; o il dominio senza scrupoli da parte dell’industria
farmaceutica dell’educazione sanitaria, della ricerca e delle pratiche mediche;
o le tremende statistiche; le leggi statali che impongono alle compagnie di
assicurazione di rimborsare le cure antidepressive come se si trattasse di
diabete o cancro; un nuovo DSM con ulteriori specie di depressione; o
normali conversazioni quotidiane con amici a cui è stata diagnosticata una
depressione o già in cura. Veicolata da questi e altri mezzi, si è diffusa
l’opinione per cui i nostri dolori, i nostri dispiaceri e la nostra disperazione
sono i segni di una malattia pervasiva, fino a radicarsi (l’opinione, non la
malattia) in quasi ognuno di noi. Vent’anni (e qualche attacco di profonda
infelicità) dopo il mio episodio sul pavimento, sarebbe impensabile sentirmi
come quel giorno e non giungere alla conclusione di essere malato. Faccio
fatica ad accettare questo pensiero, ma vivo nello stesso «clima di opinione»

in cui vivi tu, per cui devo confessare che ancora non so se la mia resistenza
sia un errore.


Nel mio ufficio c’è un lettino. Spesso chi entra lo guarda, dissimulando
con una battuta il proprio nervosismo, e poi si siede su una sedia. Ogni tanto
qualcuno ci si sdraia anche sopra, in una conscia parodia dello stereotipo
freudiano. Credo che i pazienti si siano accorti che l’ufficio sarebbe molto
più bello senza il lettino. Non è solo un cliché; è anche brutto, e troppo
grande per la stanza. Ma è perfetto per farci un sonnellino, ed ecco perché
rimane al suo posto. Da che io ricordi, ogni pomeriggio verso le due la mano
di Morfeo emerge dal mondo sotterraneo e mi prende per il collo. Resistere è
quasi impossibile, e non ho mai fissato appuntamenti di primo pomeriggio
per non cacciarmi in situazioni imbarazzanti e mandare su tutte le furie i
pazienti appisolandomi nel bel mezzo del loro travaglio.
Si dà però il caso che dormire spesso – più di mezz’ora al giorno,
quattro (o più) giorni alla settimana – sia sintomo di depressione. (Non
sembrano fare eccezione i paesi, ad esempio la Spagna, in cui la siesta
scandisce la giornata, ma probabilmente i terapeuti locali si sono regolati di
conseguenza). Dopo la fine del mio primo matrimonio, in effetti, di sonnellini
ne facevo, anche se non ne ho tenuto traccia. Un giorno, in quel periodo,
stavo dormendo con gusto quando fui svegliato da una chiamata di mio
padre. Mi dimenticai quasi subito della nostra conversazione, ma non della
sensazione di ansia nauseante che avevo provato mentre lottavo contro
l’intontimento.
«Paura», dissi alla mia terapeuta, dalla quale avevo un appuntamento il
giorno successivo. «Una sensazione di paura e disprezzo per me stesso. Cioè,
lui era lì che lavorava sodo, era in piena attività, funzionava» – mi aveva
chiamato dall’ufficio, dove fino ai settant’anni, quando era andato in
pensione, aveva passato dieci ore al giorno – «e invece io ero lì a perdere

tempo, spaparanzato sul divano in pieno giorno».
«E cosa pensi che significhi?», mi chiese lei. Gliel’avevo servito su un
piatto d’argento, un bel drammone edipico condensato in una sola scena.
«Mah, forse non vuole dire proprio nulla. Mi è sembrato, come dire, un
fatto biologico».
«Un fatto biologico? Come se ci fossero delle bestioline che ti nuotano
nel sangue e ti fanno sentire la paura?»
Lo disse come se fosse l’idea più balzana del mondo, come se provare
quella sensazione significasse semplicemente evitare la verità o essere in
preda alle allucinazioni.
Non è più un’idea balzana. Ci sono vari modi per distinguere i diversi
stati depressivi l’uno dall’altro. Ad esempio, dopo aver ascoltato le storie che
racconto qui, potreste concludere che esistono tre tipi di depressione: una che
dipende dal temperamento, quella di chi pensa che il mondo dopotutto non
sia un luogo così felice; un’altra che sembra esistere da sempre e non ha
ragioni apparenti, e infine quella che arriva dopo un brutto colpo. La
depressione di Evelyn è un buon esempio del primo caso, quella di Ann del
secondo e, se devo inquadrare anche la mia, direi che ricade nel terzo. Ci
sono poi delle distinzioni formali. Ad esempio, prima del DSM-III i medici
parlavano di disturbo maniaco-depressivo,
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in cui i pazienti oscillavano tra
due poli; di reazione psicotica involutiva,
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una condizione di delirio di colpa
e di disprezzo di sé che si manifestava durante la mezza età; e di nevrosi
depressiva,
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la comune infelicità che gli psicoanalisti curavano negli anni
d’oro della psicologia freudiana. Se queste distinzioni avessero un certo

valore o meno, o se fossero basate semplicemente sulla moda del tempo, è
difficile a dirsi. Ma è chiaro che non esistono più. A un certo punto, nei
vent’anni trascorsi da quando la mia terapeuta rideva di me, le «bestioline» le
hanno fatte fuori.


In Against Depression (Contro la depressione), il seguito della Pillola
della felicità, Peter Kramer scrive: «La depressione non è qualcosa di più né
qualcosa di meno di una malattia, è una malattia in piena regola».
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La
depressione non è solo una reazione a determinate circostanze, sostiene,
anche se a causarla possono essere determinati eventi nella nostra vita. Non è
né un segno di sensibilità, intelligenza o intuito, né un tipo di sofferenza che
affonda le radici nell’universo sociale o politico; non è nemmeno una
disperata consapevolezza di ciò che abbiamo fatto al mondo, né una reazione
alle tragedie della vita come la morte e l’inevitabilità della perdita.
Di certo, prosegue Kramer, l’incapacità di capire che la depressione è
semplicemente una malattia, un altro modo in cui il nostro corpo ci colpisce a
tradimento, senza nessuno scopo, priva di senso come la tubercolosi (che, ci
tiene a precisare, un tempo veniva considerata segno di raffinatezza), è di per
sé indice di una visione delle cose diffusa e di vecchia data, ma
profondamente sbagliata: l’idea cioè che la melanconia sia segno di una
comprensione profonda della vera natura dell’esistenza.
Kramer paragona la depressione a un «governo abusivo»
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che sembra
aver colonizzato la nostra coscienza collettiva e che, con un’abile opera
propagandistica, ci ha spinti a credere che sia qualcosa più di una malattia.
Sotto un tale regime si fatica a capire che, quando ci si ritrova sul pavimento

del proprio studio con la sensazione che qualcuno abbia aumentato la forza di
gravità, si soffre in realtà di una malattia bella e buona come ad esempio
l’appendicite. E si è in pericolo, proprio come se si ignorasse un dolore
avvertito nel basso ventre. Kramer confessa di essere stato egli stesso vittima
di una tale ideologia: non come melanconico, ma come psichiatra. Se ne
accorse, scrive, quando una paziente, una volta che i farmaci avevano fatto
effetto, lo aveva rimproverato di dedicare troppa attenzione alla ricerca del
vero significato della sua depressione. Ed ecco che aveva cambiato idea, e nel
suo libro spinge tutti, medici e pazienti, a fare lo stesso.
Stiamo assistendo a un passaggio epocale, prosegue Kramer, per cui
presto «l’eradicazione della depressione sembrerà irrilevante … se
considerato come obiettivo della società».
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C’è solo ancora un ostacolo,
scrive Kramer: l’ignoranza. Assume diverse forme, e una di queste sono le
persone come me e altri, critici dell’industria della depressione che – si legge
in Against Depression – restano stupidamente ostaggi di quel potere coloniale
e si fissano su certi punti. Ad esempio sul fatto che il numero di depressi ha
avuto un’impennata proprio quando le industrie farmaceutiche hanno
introdotto gli SSRI, o che i criteri diagnostici non distinguono tra dolore e
depressione e che quindi la diagnosi rischia di comprendere anche i dispiaceri
della vita quotidiana. Le persone che insistono su questi aspetti, come
suggerito implicitamente dal titolo del libro, sono con tutta probabilità a
favore della depressione, che piaccia o meno.
A rischio di sembrare come l’uomo che nega spudoratamente quando
gli chiedono se picchia ancora la moglie, dirò che non sono affatto a favore
della sofferenza che ha logorato Evelyn e Ann e ha ucciso Barbara, quella
che mette in ginocchio le persone, che le costringe a letto per mesi o anche
per anni. Anzi, non sono a favore della sofferenza di nessun genere. Se critico
l’idea che la depressione sia una malattia, non mi sto augurando che

l’angoscia regni sovrana. (Né penso che dobbiamo proteggere il dolore dai
medici che cercano di liberarcene; qualcosa mi dice che la sofferenza
psichica non scarseggerà mai). Il dolore, psicologico o di altra natura, è un
dato di fatto, né buono né cattivo in sé, né redenzione né flagello. Può anche
darsi che abbia un ruolo nell’evoluzione della specie – forse sopraggiunge
per avvisarci che c’è qualcosa che non va o che dobbiamo inventarci
qualcosa – ma non è difficile immaginare che possano esistere altri modi per
adempiere a questa funzione, magari meno dolorosi.
La divisione del mondo in forze a favore e contro la depressione è falsa
come ogni altro schema manicheo. Siamo tutti contro la depressione, come
siamo contro la guerra, la pedofilia e il riscaldamento globale. Bisogna
semmai accertare chi sia effettivamente depresso, cioè quali vite interiori
siano patologiche secondo il nuovo regime della depressione, e che cosa resta

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