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Rap una storia italiana paola zukar

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I SAGGI


© 2017 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano
ISBN 978-88-6865-081-0
Art director Mara Scanavino
Graphic designer Alberto Lameri
Copertina e tavole interne di Corrado Grilli
www.baldinicastoldi.it

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Paola Zukar

RAP
Una storia italiana


INDICE

Introduzione
Prefazione
«L’ETÀ DELL’INNOCENZA»
La scoperta del rap
La nascita dell’hip hop
In Italia


I limiti del rap italiano
L’Italia è l’Italia
Il messaggio nella musica
Iniziare non è mai facile
L’arte dell’hip hop
L’importanza dell’identità culturale
Sindrome di fine millennio: il Duemila
Il fascino dell’autodistruzione
1, 2, 1, 2, la fondazione
In cerca di un nuovo pubblico
Il rap è americano?
Corsi di aggiornamento
Rap o hip hop?
Il rap americano da noi è scomparso
Rap italiano
Si riparte ancora una volta, 2006
Nuovi leader
Il grande salto
Il colore dei soldi
Il rap italiano non è mai arrivato all’estero
Alleanza latina
Bei momenti
Ripagati in pieno
Un’altra chance
Big Picture Management
GLI ARTISTI
Fabri Fibra
Quanti squali ho attirato con il mio sangue in copertina?
Alto tradimento
Da tradimento a bugiardo

Machiavelli e Foscolo
Marracash
Fraintendere Marracash


L’arte della scrittura
Ritorno al futuro. 2015: lo status e lo squallor del rap vero
Lo spettacolo è finto di brutto
Clementino e la prova del nove
Napoli e la modernità
Andiamo a Sanremo, Sanremo!
L’ITALIA NON VUOLE IL RAP
La stampa e il crollo
Una moda passeggera
Tv, sorrisi, canzoni e censure
Parental Advisory Explicit Lyrics
Pop e controcultura
Commerciale al cubo
Mercato e discografia
Punti di riferimento
La radio
Web e rap
Blog sul rap. Chi scrive di rap in Rete?
La questione dei soldi
Legale, illegale. A chi importa?
L’anomalia
Società italiana autori ed editori
Etichettare la musica
Giornalismo e rap
Italy Full of Shit

Il rap nella Tv italiana
Il rap va ad Amici, ma non al Primo Maggio
Poche occasioni
La motivazione
La produzione musicale, il ghostwriting e l’originalità
Un suono competitivo
Rispettare i contenuti e la forma
IL PAESE È QUESTO QUI
Classico
Il prezzo da pagare
Nuove proposte
La porta delle stelle
Fuori dalla trappola – 2016 e oltre
Dall’altra parte. Crossover
Leale col gioco
CONCLUSIONI
Occhio al rap
Il rap e il mito dell’eroe


Grazie


INTRODUZIONE

Ciò che ho scritto in questo libro è il mio punto di vista sul percorso del rap nel
mainstream nel decennio dal 2006 al 2016 in Italia. Mi sono focalizzata in particolare su
questo periodo e prenderò soprattutto in considerazione lo sviluppo artistico nonché
economico della musica rap nel nostro Paese, grazie al ruolo che ho avuto con la mia
agenzia di management, Big Picture Mgmt.

Non ho né la pretesa né la possibilità di essere esaustiva circa la lunga storia e i molti
protagonisti di questo genere.
Chi fosse interessato ad approfondire altri aspetti e protagonisti di questo movimento
artistico può cominciare dal dvd Numero Zero di Enrico Bisi (Feltrinelli) e dai libri di Damir
Ivic, Storia ragionata dell’hip hop italiano e di Luca Bandirali, Nuovo rap italiano. La
rinascita del rap.


PREFAZIONE

I came here to raise hell, I can’t lie.
Jon Connor, One Shot One Kill, «Compton», 2015

Nel 2006, quando ho deciso seriamente di aprire la prima agenzia di management
dedicata esclusivamente ad artisti di musica rap, c’erano un mucchio di cose che ignoravo
completamente. Sapevo solo qual era il disegno che avevo in testa e conoscevo il
percorso che mi aveva portato fino a lì, ma erano senz’altro più le domande che le
risposte. Il mondo della musica era ancora un puzzle di migliaia di pezzi e per metterli
assieme avrei dovuto studiare molto, chiedere aiuto e soprattutto sperimentare, sbagliare
e imparare.
Tutto quello che ho imparato e costruito l’ho fatto grazie ad alcune persone speciali che
ho incontrato sul mio percorso a cui ho chiesto fiducia, ottenendola incondizionatamente.
Primi fra tutti Fabrizio Tarducci aka Fabri Fibra e Fabio Rizzo aka Marracash. Loro hanno
creduto nelle mie capacità senza bisogno di alcuna prova o garanzia ed è così che ci
siamo lanciati in questa avventura: senza aver nulla da perdere.
Quello che mi ha affascinato maggiormente in questo percorso lungo dieci anni sono le
storie delle persone che ho incontrato e le dinamiche di questo ambiente di lavoro, unico
nel suo genere. Queste storie raccontano molto della vita, del lavoro in Italia e di cosa
significa creare qualcosa di nuovo e inedito in questo Paese così unico, in questo periodo
storico così particolare. Nel bene e nel male. Perché il rap e il suo mondo sono un

microcosmo, una lente attraverso cui osservare pregi e difetti di un macrocosmo enorme,
in cui l’Italia e gli italiani si mettono in mostra per quello che sono e per quello che
cercano di diventare.


RAP
Una storia italiana



«L’ETÀ DELL’INNOCENZA»

She tried to tell me that the world is mine
I know that ain’t true
And even though I want it all
I’m young, man, and I got everything to lose.
A$AP Ferg ft. Big Sean, World Is Mine, «Always Strive And Prosper», 2016

Negli anni Settanta scoprire e ascoltare musica nuova era considerato di per sé un atto
quasi rivoluzionario. Già il semplice fatto di trovarla diceva che la ricerca non era stata
facile, perché raggiungere «cose nuove» non era scontato. Era tutto molto lento e si
muoveva attraverso i soliti quattro canali: c’era la radio, praticamente come fosse una
soltanto (ad esempio Radio Milano International, una delle primissime radio private,
nasce solo nel 1975), c’era la Tv (che a metà anni Settanta neanche aveva ancora il
colore) e... basta. Per la musica c’erano poi i negozi di dischi che fungevano da blog e da
aggregatori nonché i locali della musica dal vivo, i concerti. Soprattutto le discoteche. Se
e quando le vere novità riuscivano ad arrivare in Italia però te ne accorgevi eccome. Le
cose che si trovavano e che crescevano con il consenso popolare definivano il loro tempo.
E negli anni Settanta-Ottanta tutto, anche in Italia, sarebbe cambiato radicalmente.


La scoperta del rap
I said a hip hop the hippie the hippie
To the hip hip hop and you don’t stop
The rock it to the bang bang boogie
Say up jump the boogie to the rhythm of the boogie, the beat.
Wonder Mike, Rapper’s Delight, 1977

Darei per scontato che le cose belle nella vita sono senz’altro molto più rare di quelle
brutte o perlomeno di quelle noiose. Per me, una delle cose più belle in assoluto è proprio
il rap: credo di aver cominciato ad ascoltare il rap perché me l’hanno ordinato gli alieni o
così sembrerebbe. Un po’ come quando in 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, le
scimmie primitive si azzuffano tra loro per la supremazia dello stagno e poi si ritrovano
davanti il monolito, quella struttura perfetta e misteriosa venuta da chissà dove. Ecco, la
metafora è un po’ questa. Come sia piovuto il rap a Genova alla fine degli anni Settanta è
sorprendente quanto misterioso.
Un pomeriggio indefinibile dell’estate del 1980, ho suonato alla porta del mio amico
Riccardo Corsi. Avevo 12 anni e mezzo circa. Eravamo vicini di casa e molto amici, quel
tipo di amicizia inscindibile che crei quando ti piacciono gli stessi fumetti della Marvel. A
lui piaceva Thor, a me Silver Surfer e discutevamo per ore su chi fosse «meglio». La sua


porta di casa era ad angolo con la mia, a venti centimetri di distanza e c’erano cinque
appartamenti per pianerottolo, su sette piani d’altezza. Entriamo in camera sua: era
piccolina, ma aveva la televisione, una vera anomalia per quegli anni perché
praticamente nessuno aveva la propria Tv in cameretta (e ovviamente nemmeno un pc!).
Uno scatolone di legno con un tubo catodico ingombrantissimo. In quel momento era
accesa su uno dei tre o quattro canali che si prendevano all’epoca ed ecco che gli alieni
hanno voluto trasmettere proprio lì, a me e in quel momento, il loro messaggio
futuristico: era Rapper’s Delight degli Sugarhill Gang, un video a colori sbiaditi, dove tre
ragazzoni e un gruppo di ballerini da sabato sera, in una finta discoteca, stavano sopra al

beat funky di Good Times degli Chic, rivisitato con le parole. Non stavano cantando, non
stavano parlando, stavano rimbalzando con le sillabe sulla strumentale che avevo già
sentito in qualche classifica in radio. Non perdevano un colpo. Rotolavano sulla linea di
basso con una naturalezza e con un tale savoir faire che ne rimasi completamente rapita.
Ma che cosa stavo guardando/ascoltando? A bocca aperta, mi sono guardata tutto il
lunghissimo video di sei minuti, o forse l’avranno tagliato a poco meno. Non mi ricordo.
Non esisteva un ritornello, ma all’epoca io non sapevo nemmeno cosa fosse davvero un
ritornello: i tre ragazzi si alternavano uno dopo l’altro e dicevano delle cose bellissime ma
totalmente incomprensibili e mentre procedevano, nella mia testa i cerchi si chiudevano
magicamente uno dopo l’altro, rima dopo rima, strofa dopo strofa e mi lasciavo
trasportare dal fluire della musica e dal suono di quelle parole. Cerchi perfetti.
Ero stata rapita dagli alieni. Quella cosa era così nuova che sembrava davvero un
manufatto alieno caduto dal cielo. Quando il video finì, Riccardo e io riprendemmo a
discutere se fosse più forte Thor o Silver Surfer. Non risolvemmo mai la questione perché
non potevamo provare nessuna delle nostre teorie, ma nel frattempo gli alieni avevano
messo a segno il loro piano diabolico. La mia mente voleva risentire quei cerchi perfetti
che si aprivano e si chiudevano magicamente: rime sul beat.
In quegli anni non avevamo modo di rivedere quella cosa in nessun modo: così come
era apparsa, era scomparsa dopo pochi minuti. Non esistevano videoregistratori né
tantomeno YouTube e quindi non si poteva assolutamente riprodurre a piacimento quel
video. Se n’era andato, ma avevo colto l’attimo. La vita continuava con le sue cose belle
e le sue cose noiose, talvolta brutte. Sembra di parlare della preistoria, sono passati
trentacinque anni, praticamente un’era...

La nascita dell’hip hop
This high-powered music is truly unique
As The Glove cuts the rhythm to the hip-hop beat.
Ice-T, Reckless, «Breakin’», 1984

Quattro anni dopo, nel 1984, sempre nell’età dell’innocenza quando avevo appena sedici

anni, il rap mi si ripresentò davanti ancora una volta, sotto forma cinematografica. Perfino
a Genova, in qualche sala, stavano proiettando Breakin’, un film per teenager con una


trama fantascientifica (grazie a una festa da ballo, i protagonisti avrebbero potuto
raccogliere i fondi necessari a salvare il loro centro d’aggregazione dalla demolizione,
continuando così a coltivare il loro amore per la musica e la danza). Il film era davvero
semplicissimo e naïf a livello di sceneggiatura e recitazione, ma le immagini, il ballo e
soprattutto la musica colmavano ampiamente quei vuoti sperimentali. Uscita dal cinema
mi fiondai nel mio negozio di dischi preferito (Discoclub, in via San Vincenzo 20R che
ancora resiste!) e trovai il vinile della colonna sonora originale di Breakin’ e già che c’ero
comprai anche quello di Beat Street in doppio vinile, con copertina rosa e copertina gialla,
usciti nello stesso periodo. Saranno pure stati teen-movie, ma nelle colonne sonore ci
sono Ice-T, Rufus con Chaka Khan, Grandmaster Melle Mel, Afrika Bambaataa e altri
ancora. E quando vedi per la prima volta tre ragazzi che ballano coordinati con un windbreaker della Nike dai colori sgargianti, con Ice-T che rappa e porta degli occhiali da sci
attorno al collo, mentre il dj scratcha in un locale con le pareti dipinte da scritte giganti,
sai di avere scoperto davvero qualcosa.

In Italia
Le strade di Genova, nel 1984, erano molto lontane dalle strade di Los Angeles o di New
York, ieri come oggi, ieri più di oggi. Non esisteva quell’immaginario, non esistevano quei
colori, quella musica, quegli atteggiamenti, quelle mosse, quelle novità, tutte assieme.
Non esisteva niente di tutto ciò, ma io volevo a tutti i costi farne parte, razionalmente
non saprei perché, ma avendo sedici anni, quell’avverbio non significava davvero niente
per me, mentre tutto quel mondo sì. E non solo avrei voluto farne parte, ma avrei anche
voluto farlo conoscere a più gente possibile, per far diventare anche Priaruggia, il mio
quartiere, come il film Breakin’, anche Genova, anche l’Italia.
Ma si sa... i sogni sono sogni, soprattutto a sedici anni e la realtà è un’altra. La realtà è
quella cosa che, quando esci di casa e la incontri, portando con te l’idea meravigliosa che
hai coltivato in camera tua, ti fa capire immediatamente le tue potenzialità e le tue

probabilità di riuscita. Non c’erano grandi opportunità di vivere con il rap allora... Il 99,9%
della popolazione che incontravi non ne conosceva nemmeno l’esistenza e quando trovavi
qualcun altro che era stato contagiato dagli alieni come te, avevi trovato un tesoro. Si era
anche disposti a fare centinaia di chilometri per incontrare e parlare con qualcuno che
condividesse la tua stessa passione. Praticamente nemmeno in America vivevi di rap in
quel periodo. In quegli anni stava nascendo una nuova cultura musicale e artistica che
avrebbe contribuito da lì a poco a cambiare il mondo.

I limiti del rap italiano
Oggi, qui in Italia, il paradosso del fenomeno rap è che siamo in un Paese che ha
accettato il rap suo malgrado, forse per noia o per mancanza di altre novità, ma che in
fondo non lo vuole per come è o per come dovrebbe essere, proprio per una ragione di


natura strutturale, storica, genetica. Non lo voleva per com’era e ancora non lo vuole per
come dovrebbe essere. Ribelle e «fastidioso», controverso e parallelo ai canoni della
cultura dominante, su una strada tutta sua. Il peggiore difetto dell’Italia, per me, è essere
un Paese fortemente ipocrita e falso, dove l’apparenza è tutto e la verità è un’altra. E a
nessuno conviene veramente dirla, spiegarla o raccontarla, perché non ci guadagni
niente, anzi... L’algoritmo è tutto qui. Ecco perché il rap è arrivato nei Novanta tutto
baldanzoso e «contro» per poi venire brutalmente rigettato dalla cultura dominante e
anche, paradossalmente, dall’underground. Anche per questo motivo, da noi, il percorso
della localizzazione del rap, la sua italianizzazione, è stato molto più lento e tortuoso
rispetto ad altri Paesi europei, direi quasi sofferto, al di là di alcune oggettive difficoltà di
«traduzione» e di suono delle parole.
L’Italia, quella vera, vuole il rap ma solo nelle sue forme più digeribili, più assimilabili e
presentabili, più innocenti e amichevoli, quando invece la sua natura è quella di essere
scomodo, discusso e sempre nuovo, originale, tecnicamente irreprensibile. L’Italia «vera»,
quella che esiste nei bar, nella provincia, nelle parrocchie, fa davvero molta fatica a
decodificare, a interpretare, a tradurre, ad andare oltre la prima impressione delle cose,

della storia, dell’arte, della realtà. È un Paese di pance, più che di teste. Quindi come ha
potuto crescere ed espandersi il rap pur mantenendo in qualche modo una propria
identità, al di là degli scivoloni verso le lusinghe della cultura musicale italiana?
Lentamente e con grandi difficoltà nonché attraverso mutazioni genetiche, non sempre
piacevoli.

L’Italia è l’Italia
Italia fa qualcosa, non restare catatonica.
Marracash, Catatonica, «Status», 2016

Esistono delle ragioni per questa storica e innata diffidenza: l’Italia, oggettivamente, è un
Paese tradizionalista, non moderno, basta guardare cosa la differenzia oggi da altri Paesi
europei e mondiali. L’hip hop di per sé è nuovo, mai uguale a se stesso anno dopo anno,
difficile da catalogare o assimilare, sempre pronto a rimettersi in discussione e
reinventarsi. Esattamente il contrario dell’Italia e degli italiani veraci, quelli che sembrano
nascosti ma sono invece una maggioranza ben determinata a lasciare le cose come
stanno, come stavano.
Sono quei milioni di persone che guardano il Festival di Sanremo ogni anno. Vecchi
anche quando sono giovani, provinciali anche quando stanno in città. Anche in Italia però
è filtrata lenta ma inesorabile la contemporaneità, che lo si volesse o meno: arriva
Internet, arrivano i voli low-cost, arrivano pesantemente le multinazionali, l’IKEA, i brand
stranieri, i social network, arrivano le droghe sintetiche e tutti quegli elementi che
cambiano una realtà sociale, mentre nel frattempo in questa stessa realtà c’è la
decadenza dei Novanta che degrada nella crisi economica degli anni Zero, c’è la noia, c’è
una musica pop italiana piuttosto inerte e stantia, c’è un’identità culturale tutta


frastagliata e sospesa nel vuoto di questi vent’anni che passano da un Drive In a una
Domenica In. Con questi fattori in gioco, alla fine qualcosa nella barriera deve cedere. Se
non ci fosse stato Internet, questa nuova ondata del rap italiano nel mainstream non ci

sarebbe stata. Ieri come oggi, stesso discorso con la trap. Un album come «Mr. Simpatia»
(2004) di Fabri Fibra ha spinto sull’acceleratore e ha funzionato da catalizzatore per
quello, perché a quell’epoca Internet era un contenitore in cui si potevano davvero
trovare proposte alternative a quelle del circuito musicale standard. E infatti «Mr.
Simpatia» era ed è tuttora un’anomalia nella macchina della musica italiana. Un nuovo
canale di distribuzione, per un progetto così, era indispensabile.
Ma in dieci anni sono già cambiate molte cose: ormai anche la musica in Rete strizza
pesantemente l’occhio alla musica del circuito tradizionale, la imita, sia nel rap che in altri
generi... Non è più così coraggiosa perché su Internet ci sono arrivati praticamente tutti
quelli che una volta ne erano fuori. Ed è questa maggioranza lenta e grassa come un blob
che decide ancora una volta con il telecomando in mano, come se anche Internet fosse
schiava dell’Auditel, dei grandi numeri. Anche in Rete sono arrivati i soldi e quindi le leggi
del marketing si applicano anche qui, come in altri circuiti mediatici tradizionali italiani. La
differenza di Internet sta però nel fatto che lì non ci sono i vecchi editori italiani a
scegliere cosa dobbiamo fruire. Semmai questi selezionano ancora a monte, nei media
tradizionali, e poi a valle, su Internet, la gente ricade sulle scelte di cui sopra. Ma non
sempre la direzione è in questo senso: alle volte il senso si inverte e qualcosa parte dal
basso. Tutti i media outlet sul web sono di multinazionali estere localizzate sul nostro
territorio: Twitter, YouTube, Apple Music, Spotify ecc. La rappresentanza italiana non
decide, non sceglie: segue.
Oggi è difficile inventare qualcosa di veramente nuovo perché siamo saturi e perché
l’Italia tenta sempre di inglobarti con le sue regole e i suoi meccanismi. La frase cardine
d i 1992, la serie di Sky, era: «Illusione, delusione, collusione». Una dinamica che si
applica ovunque qui da noi. Dopo aver creduto di poter cambiare il mondo, ti rendi conto
che stai combattendo una guerra troppo grande e finisci per cedere, unendoti al nemico.
L’Italia, con la sua mentalità tradizionalista, è decisamente un osso duro. Si capisce
presto quello che rende e quello che non rende: rende essere addomesticati, non rende
essere coraggiosi e solitari perché magari, se conviene, ti lasciano entrare anche a te nel
pollaio e ci puoi stare comodo anche tu. Difficile lasciare crescere qualcosa per quello che
è, accettarlo, lasciarlo esprimere. La cultura dominante italiana mangia la sottocultura e

non lascia niente, se ne appropria come se fosse sempre stata sua, se le interessa. E la
nostra cultura dominante ha anche un forte lato oscuro, mai davvero risolto: quello che
rispetta e teme di più «i veri cattivi» (i villains) mentre punisce gli «anti-eroi» (gli
underdog), quando nella cultura anglosassone accade l’esatto opposto: la cultura
dominante inglese e americana prende in prestito dei pezzi di sottocultura e ne rende
merito, lasciando crescere quelle nicchie come bacini dai quali attingere nei momenti di
bisogno. E l’anti-eroe è amatissimo perché incarna, talvolta meglio dell’eroe, il sogno
americano. In Italia non esistono delle nicchie in grado di autoalimentarsi e di
sopravvivere, le sottoculture spariscono perché il raggio d’azione è troppo piccolo e


finiscono per farsi comprare dalla cultura dominante o per soffocare per asfissia. Il
mercato è uno solo, piccolo, asfittico, il resto è mancia.

Il messaggio nella musica
It’s like a jungle sometimes
It makes me wonder how I keep from going under.
Grandmaster Flash and The Furious Five, The Message, «The Message», 1982

Quando Grandmaster Melle Mel con Flash e i Furious Five hanno pubblicato The Message,
il rap americano è arrivato a possedere una sua identità, il processo di formazione e
maturazione era già completo. The Message è per forma e contenuto LA canzone rap per
eccellenza ed è ancora oggi uno standard a cui guardare. Il testo racconta la periferia
nella maniera più cruda e diretta possibile e l’anno è il 1982. L’America ha abbracciato
quel testo e quell’impietosa descrizione in musica della quotidianità del ghetto senza
riserve, come una catarsi, per quanto diretto e scomodo fosse. Il ritornello dice: «Non mi
spingere oltre perché sono vicino al limite, sto cercando di non perdere la testa» e la
canzone inizia così: «Vetri rotti ovunque, la gente piscia sui gradini, non gliene frega
niente. Non sopporto più l’odore, non sopporto più il rumore, non ho soldi per andarmene,
non ho altra scelta». Così erano molti quartieri prevalentemente afroamericani e ispanici

agli inizi degli anni Ottanta. Violenza, degrado, povertà e rassegnazione. E con The
Message la comunità afroamericana ha cominciato a confrontarsi e a ribellarsi a una
situazione divenuta inaccettabile. Nessun membro di quella comunità però si è sentito
sminuito da quel testo, da quella canzone, nessuno si è sentito offeso da quel ritratto
impietoso della propria vita quotidiana. La situazione era proprio quella e nessuno ha
imposto a Melle Mel di raccontare anche le belle storie di solidarietà e di rispetto del
quartiere che senz’altro convivevano con quel degrado. Era il momento della ribellione e il
rap raccontava proprio quella. Come poi avrebbero fatto i Public Enemy con Don’t Believe
The Hype o Fight The Power o gli NWA con Fuck The Police o ancora KRS-One con The
Sound Of Da Police e molti altri ancora. La comunità afroamericana ha abbracciato con
orgoglio quella dichiarazione di guerra che partiva dalla descrizione e accettazione di una
loro condizione grave, d’inferiorità, iniziando così a riconoscere un problema che non
poteva più essere ignorato.
In Italia siamo tendenzialmente programmati per fare l’esatto opposto: la negatività,
l’inadeguatezza, l’inferiorità va nascosta, mistificata, le storie da raccontare devono
essere altre, l’amore farà andare tutto bene, vogliamo credere nel sogno e ignorare la
realtà, sperando che qualcuno magicamente la trasformi, anche senza la nostra
consapevolezza o partecipazione. Sognare, sognare e sognare ancora, con ogni mezzo
necessario. Ancora non mi spiego il modo in cui la Gomorra di Roberto Saviano sia stata
osteggiata da una parte di persone. Ma se non riconosci un problema come tale, come
potrai risolverlo? Dargli un nome, un’immagine, un suono, parlarne, sentirlo, raccontarlo è
già parte di una soluzione. Non certo solo nella musica.


L’attore della serie Tv Gomorra Fabio De Caro ha recitato in una scena particolarmente
cruenta in cui trucidava una bimba, mostrando così in video, seppur in una finzione, un
lato terribile e indicibile del crimine organizzato e per questo motivo è stato subissato di
insulti sulla sua pagina Facebook e per strada... Qualcuno non ha capito che recitava una
parte? Qualcuno non avrebbe voluto che lui incarnasse sullo schermo questo personaggio
che nella realtà da qualche parte esiste, ma non si vede in Tv? Meglio non vedere,

ignorare, aggredire un’immagine piuttosto che affrontare il problema anche se sotto
forma di finzione televisiva. L’arte e il potere della sublimazione, della metafora.
Dalla psicanalisi alla sociologia, dal particolare al generale: ignorare i problemi o
silenziarli significa lasciarli prosperare e in qualche modo approvarli e condividerli. Non è
il contrario. Saviano ha dato la sua risposta in un’intervista al Testimone di Pif su MTV:
già Leopardi riconobbe che agli italiani il male piace farlo ma non raccontarlo. Peccato
che il rap al suo meglio faccia spesso proprio questo: rende commestibile ciò che in altre
forme non lo è, celebra la realtà per poterla sublimare, accettare e decodificare.
The Message è stata pubblicata dalla Sugar Hill Records nel 1982 da Grandmaster Flash
& The Furious Five: Melle Mel rappa il testo dai contenuti fortemente sociali scritto da Ed
«Duke Bootee» Fletcher. In un’intervista con NPR Music, Melle Mel confessa che il gruppo
non avrebbe nemmeno voluto registrare quel brano perché, a quel tempo, tutte i pezzi
rap erano pensati per i party e il frasario degli mc la maggior parte delle volte si limitava
a ripetere delle frasi da intrattenimento con un pesante eco, in modo da enfatizzare la
musica su cui si ballava. «Andavamo sempre in un club che si chiamava Disco Fever nel
Bronx e la casa discografica decise di testare il singolo con la gente sulla pista da ballo:
suonarono The Message subito dopo Planet Rock di Bambaataa che all’epoca era già un
successo incredibile e io avevo paura che la pista si svuotasse. Il pubblico impazzì. Lo
testarono anche in un negozio di dischi molto noto di allora e accadde la stessa cosa. È
così che abbiamo deciso tutti di pubblicare The Message». Funzionava in questo modo a
quei tempi ed è stata la gente a volere e a glorificare The Message. La gente voleva
rivedersi in quel testo, in quelle parole, voleva essere rappresentata anche così. Ne aveva
il coraggio.
M a The Message è passato alla storia per un altro motivo ancora: molti critici la
riconoscono come la canzone che ha polarizzato l’attenzione del pubblico dal dj all’mc,
portando quest’ultimo in primo piano rispetto al mix e allo scratch di chi stava dietro ai
piatti. Le parole e i pensieri del rapper da qui diventavano centrali rispetto alla musica
che li supportava. La gente pretendeva quindi qualcosa di più dalla musica, non voleva
soltanto ballare, voleva anche pensare, cantare, avere delle rime e degli slogan da
portare in alto. E per questo, il rap sarebbe stato da qui a oggi, il genere perfetto.




Iniziare non è mai facile
You can’t understand us ‘cause you’re too soft.
Future, Stick Talk, «DS2», 2015

In Italia ti rendi conto che il rap va di moda quando senti una pubblicità scema in cui
prendono uno e gli fanno fare una specie di rap, come nota di colore. Negli anni Novanta
c’era la Uno Rap, c’erano dei b-boys intorno a una Fiat e la strofa faceva così: «Uno Rap è
una Uno, una Uno più, sembra fatta per me, sembra fatta per tu» – piuttosto
imbarazzante. Adesso c’è lo spot di un tè freddo, che fa così: «Santhè Sant’Anna con te ci
prendo gusto, sei come un bacio proprio giusto». La cosa migliore rap nella pubblicità
italiana, però, è stata forse fatta da Elio con il pinguino della Vodafone. It’s all about
surreality... Il rap, per gli italiani, fa sempre e solo giovane, spensierato e un po’ buffo, e
anche oggi, per moltissimi, è come se non fosse cambiato niente dal 1992. Il rap usato
per le pubblicità e le parodie ha sempre attratto molto e i media e il pubblico si
accorgono poco di come ciò aggravi la reputazione di un genere che si mostra così usa e
getta, dandogli spesso una valenza più commerciale che di spessore culturale, artistico.

L’arte dell’hip hop
Lo spot della Uno Rap lo ha scritto J-Ax e sicuramente avrebbe potuto e forse voluto, già
allora, farlo meglio, ma credo che l’agenzia lo volesse così. Spensierato. Posso solo
immaginare le richieste dei pubblicitari di allora che non avevano la più pallida idea di
cosa lontanamente fosse il rap... Gli italiani adorano le cose spensierate.
Pensare è sempre rischioso, meglio «spensierare».
E questo neologismo te lo inculcano da subito, per non sbagliare, anche in famiglia.
«Meglio non dire certe cose», anche se esistono. Meglio non raccontare. Anche se il
silenzio e la negazione di un problema sono simili a una porta che si chiude su una casa
in fiamme: come se chiudendo semplicemente la porta il fuoco non si vedesse e non

esistesse più.
Ma la contemporaneità nel frattempo è arrivata anche in Italia, e purtroppo gli italiani
hanno costantemente bisogno di convincersi che siamo già in un «futuro». La nostra
inadeguatezza tecnologica, il nostro attaccamento a vecchie credenze e tradizioni si
scontrano di continuo con questo «futuro/presente» che bussa alla nostra porta.
Tornando al rap, una volta che hai convinto un’altra fetta di pubblico che il rap
rappresenta la modernità, ti rendi conto che devi convincere di nuovo quelli che già prima
apprezzavano «l’hip hop per ciò che era» e che adesso, rivedendosi in un nuovo gruppo
più ampio, non lo vogliono più, per gli stessi motivi di cui sopra. L’hip hop non è una
religione, è arte, è cultura, è musica, è libertà. La chiusura di certi «talebani» dell’hip hop
in Italia mi sembra simile al cannibalismo. Questa cosa è tipica delle sottoculture italiane,
mentre all’estero non si applicano gli stessi meccanismi. Quando una sottocultura in Italia
travalica i propri confini e diventa mainstream, i suoi primi supporter non solo la


abbandonano ma la ostracizzano, la delegittimano, la odiano. All’estero invece i pionieri
cercano fin da subito di capitalizzare sui nuovi successi della loro «creatura», certamente
anche proteggendola, mai impedendo però a nessuno di contribuire alla sua espansione.
L’underground in generale, in Italia, è molto coraggioso nei contenuti ma raramente è
tanto coraggioso da diventare espansionistico, poiché di solito non si pone la crescita
come obiettivo, ma mira al proprio mantenimento nel tempo: se fai musica per non
piacere alla massa, di sicuro ci riuscirai, non è difficile non piacere e ti toglie anche
qualsiasi spiacevole responsabilità di portare la tua musica in posti dove non è mai stata,
poiché ti darebbe l’incombenza di doverla spiegare, di doverla suonare davanti a un
pubblico che non sempre ti conosce e ti capisce, lasciandoti la responsabilità di spostare
l’asticella un po’ più in alto, di saltare più in là, in un territorio sconosciuto. Il grande salto
è proprio quello di passare con convinzione dall’underground al mainstream, senza mai
perdere la propria identità e senza abbracciare il pericoloso percorso verso «l’illusione, la
delusione, la collusione». Anche in passato ce l’hanno fatta in pochi. Non solo nel rap tra
l’altro.


L’importanza dell’identità culturale
Non cambia la sostanza, ma chi la usa.
Fabri Fibra, Pablo Escobar, «Squallor», 2015

O meglio la sua eventuale perdita. Ampliare il proprio raggio d’azione per passare a
nuove aperture non significa per forza diluire la propria sostanza o cambiare addirittura
bandiera. Tutto cambia e passa. Tutto scorre. In questa frase di Eraclito, che dopo 2500
anni inizierei a dare per assimilata, si sottolinea come l’uomo non possa mai fare la
stessa esperienza per due volte, poiché ogni essere, nella sua realtà apparente, è
sottoposto alla legge inesorabile del mutamento. Nulla rimane identico e immutabile ed è
forse anche per questo motivo che siamo così tanto alla ricerca di autenticità, di
un’identità alla quale agganciarci disperatamente. Così anche il rap ha una propria
identità culturale alla quale vogliamo restare fedeli per riuscire più facilmente a credere
in qualcosa, nonostante non sia una religione. Peccato che talvolta si perda di vista
un’identità anche quando in realtà cambia solo il vestito, la forma, mentre la sostanza
resta immutata. Non cambia la sostanza, ma chi la usa...

Sindrome di fine millennio: il Duemila
C’è stata sicuramente un’importantissima fase di costruzione del movimento hip hop in
Italia che ha conosciuto al proprio interno, e in modo pesante, anche il momento
dell’autodistruzione. Chi ha vissuto quegli anni che vanno dal 1990 al 2000 sa di cosa
stiamo parlando. Artisti che andavano incontro a un rapido declino perché la fanbase
sosteneva l’artista soltanto se estraneo a una cosiddetta logica «commerciale», salvo poi


abbandonarlo in ogni caso a se stesso. Il tutto accadeva peraltro in una comunità molto
ristretta.
Molti dei pochi fan dell’epoca erano lo stesso portati a trasformarsi in aspiranti artisti,
per una logica perversa secondo la quale se vuoi apprezzare l’hip hop lo devi anche saper

fare. Non è ovviamente così. Sul palco ci sta l’artista, sotto il palco ci stanno i fan, il
pubblico: le proporzioni non possono essere di uno a uno. Apprezzare e fare non è
assolutamente un binomio inscindibile, così come non lo è criticare e fare. È
l’autorevolezza che costituisce la vera critica, non un insulto o un giudizio tranchant.
Allora si instaurava una strana forma di competitività che non c’entrava nulla con il
convenzionale rapporto tra pubblico e artista che ovunque si dà per scontato, ma da noi
no. Si pensava che, così facendo, si sarebbero eliminati i sucker, ovvero, nel linguaggio
della scena, gli sfigati che avevano come colpa quella di appassionarsi a un genere che
stava nascendo anche qui, che conoscevano poco e come conseguenza avrebbero potuto
interpretare «male». Tutti questi meccanismi resero la scena rap di allora una zona a
rischio soffocamento. E per un periodo così fu. Dal 2000 al 2005.

Il fascino dell’autodistruzione
Non si accettava nemmeno la spinta promozionale di Radio Deejay, la prima radio
nazionale che abbracciò la musica rap senza riserve, a microfoni aperti. Linus, Albertino,
Jovanotti e Dario Usuelli parlavano di rap, lo spingevano, ospitavano moltissimi artisti
italiani ma venivano nel contempo attaccati per questo stesso motivo. All’epoca non
credo che ottennero un gran ritorno, né economico né d’immagine, visto che erano
ancora nel pieno del successo mostruoso del Deejay Time, di Deejay Television e della
musica da discoteca, dove il rap non entrava praticamente mai. Di sicuro non ci entrava
quello italiano. Radio Deejay era comunque l’unica radio a dar spazio al rap in italiano,
con Venerdì Rappa prima e One Two One Two dopo. 105 incluse la programmazione del
rap nel proprio palinsesto grazie a Codice Rap, la trasmissione di Ringo che, assieme ad
alcuni amici calciatori come Maldini, passavano e commentavano il rap, in gran parte
internazionale. Il mio amico Massimo Oldani su 101 si permetteva di mettere in onda
canzoni impossibili tipo Cell Therapy dei Goodie Mob alle cinque del pomeriggio,
illudendomi che anche in questo Paese un suono così sarebbe stato da lì a breve possibile
su larga scala. Se ascoltavi la naturalezza con cui Oldani annunciava brani rap e R&B
avresti pensato di trovarti in un’Italia che presto sarebbe stata annessa alla «Nazione
Unica Sotto Lo Stesso Groove» profetizzato dai Funkadelic. Ma no, non era così,

decisamente troppo presto per la maggior parte degli italiani. Luca De Gennaro, tramite
la radio prima e MTV poi, cercava di inserire qua e là sprazzi di una cultura che aveva
iniziato a seguire da subito. Quindi, timidamente, molti addetti ai lavori, affascinati dal
rap e dall’hip hop, cominciavano a ritagliare degli spazi consolidati del loro mainstream
per aprire uno spiraglio.
Un’altra anomalia importante da sottolineare è che la cultura hip hop da noi, all’inizio,


contagiò in buona parte soprattutto i figli della classe medio-alta borghese, i benestanti,
e non ebbe subito molto riscontro popolare nelle periferie urbane, al contrario di Francia,
Inghilterra e Germania; dovettero arrivare i primi successi radiofonici di Neffa, OTR,
Articolo 31 e Sottotono per aggiungere a quell’iniziale apprezzamento elitario un vero
supporto popolare che, però, all’inizio fu sporadico e legato semplicemente a quella hit
piuttosto che agli artisti o al genere in sé.
In ogni caso, la scena italiana restava spesso ai margini della radio e della Tv: scettica,
incompresa. I lodevoli tentativi di traduzione e localizzazione non venivano
contestualizzati, al di là di One Two One Two : lo status di eccellenza nell’underground di
allora non sortiva alcun fascino nei media italiani mainstream. Perfino un album perfetto
e avanguardista come «SxM» dei Sangue Misto non venne celebrato ovunque come
avrebbe meritato. E anche oggi non è cambiato poi molto...
In nessuna parte del mondo si verificò un corto circuito di pari dimensioni, anche perché
le comunità hip hop di America e Francia avevano iniziato a «corteggiare», a loro modo e
senza tregua, le radio, consapevoli che il loro supporto sarebbe stato fondamentale per
aprire le porte del mainstream. Forti anche di un pubblico convinto che mostrava in ogni
occasione di volere quel tipo di novità abrasiva. Alla stessa stregua molte radio,
corteggiavano il rap perché gli riconoscevano sempre un potenziale appeal popolare,
anche quando si presentava duro e puro. Le radio e le Tv assumevano chi sapeva
raccontare bene e con autorevolezza il rap, le sue canzoni, i testi, la cultura e cioè chi
sapeva approfondire e tradurre in modo attraente tutto ciò che ruotava attorno alle
sporadiche hit che approdavano dall’underground al mainstream.

Il corteggiamento all’estero quindi è sempre stato reciproco. Ma non da noi.
Questo fa comunque parte del difficoltoso rapporto degli italiani con il mainstream, la
cultura dominante, il successo proprio e altrui, con la sua gestione, nonché con l’arte e la
sua commercializzazione, con i soldi. L’artista voleva essere allo stesso tempo artista,
fan, critico, giudice e giuria della sua arte e di quella altrui. Nessun altro poteva entrare in
questo circolo vizioso. Le radio, d’altro canto, pretendevano allora un livello qualitativo
statunitense impossibile da raggiungere e riconoscevano adatte pochissime realtà
nazionali. Troppo poche. Il mainstream snobbava duramente l’indie e l’underground si
chiudeva a riccio.

1, 2, 1, 2, la fondazione
L’importanza delle prime fasi di alfabetizzazione e di traduzione del rap in italiano non
sarà mai messa in discussione da nessuno: sarebbe come dire che le fondamenta di una
casa sono meno importanti del tetto. Impossibile. Ogni passaggio di testimone, ogni
tentativo, ogni spinta in avanti, ogni artista, ogni successo, ogni progetto è funzionale a
ciò che è venuto dopo, anche quello più eroicamente fallimentare. Anche quest’ultimi
hanno almeno dimostrato come non fare. Ci sono già diversi libri che si sono occupati
molto bene di descrivere quel periodo ricco di uscite discografiche fondamentali e


soprattutto di miriadi di jam e concerti sparsi in tutto il territorio nazionale, da nord a sud,
che iniziavano a radicare questo genere musicale e questa cultura in Italia.
Oggi esiste un pubblico molto giovane che si ritrova una scena musicale fatta e finita e
non si chiede molto da dove arriva: qualcuno arriva addirittura a pensare che il rap sia
nato qui, in Italia, e anche negli Stati Uniti la nuova generazione di ascoltatori del rap non
si domanda più di tanto quali siano le origini di questa musica, chi siano i pionieri. Per
loro, in ogni caso, i loro artisti sono qui e ora, in un momento di grande vivacità del
panorama musicale. Se questa cosa accade nel rap americano, da noi è ancora più
evidente.
Chi segue le vicende della musica italiana da più tempo invece sa che c’è stato un

momento molto buio, dopo il 2000, in cui di rap non si parlava più, e se ne faceva ancora
meno. L’industria discografica non era più interessata perché il pubblico non era
numeroso; si trattava per lo più di gruppi sparsi, di orfani della prima ondata del rap.
Anche la distribuzione, qualora si fosse riusciti a stampare un disco, era problematica:
album come «Mi Fist» o «Turbe giovanili» non li trovavi certo in tutti i negozi, tanto che
oggi sono rarità, se non fosse per le ristampe e per il web. Su quali basi si è quindi
riorganizzato un fenomeno che poi è arrivato alle proporzioni di oggi?

In cerca di un nuovo pubblico
Qui non va, ma questo badabum cha cha tira forte in Francia,
Usa e Canada.
Marracash, Badabum Cha Cha, «Marracash», 2008

Non si dovrebbe aver problemi a riconoscere quanto siano state determinanti la
caparbietà e le capacità di Fabri Fibra a portare il rap a un pubblico più ampio, qualunque
esso fosse. Proprio per non ritrovarsi ancora una volta nella spiacevolissima situazione di
veder sparire tutto di nuovo per miopia e diffidenza verso l’esterno, come accadde nel
2000. Dopo il tiepido successo di «Turbe giovanili» (nel 2002, ma anche di tutte le altre
interessanti pubblicazioni di quel periodo, tra cui «Mi Fist», 2003, e la collaborazione con
Mondo Marcio nel 2004), Fibra decise, più o meno inconsciamente, che il rap avrebbe
avuto bisogno di un suo vero, forte e decisivo Big Bang. Il pubblico italiano in generale
andava svegliato dal torpore e dalla sufficienza con cui guardava il confuso rap italiano
dei primi anni Duemila con un vero e proprio schiaffone in piena faccia. Presentò «Mr.
Simpatia».
A rincarare la dose sono arrivati anche altri importantissimi artisti che avevano insito
nel loro carisma un’attitudine popolare: Marracash e i Club Dogo. Tutti questi artisti
hanno avuto l’incombenza e la capacità di crearsi un pubblico nuovo di zecca, una nuova
generazione di appassionati abituati ad ascoltare altro. Anche Mondo Marcio voleva
rendere la sua musica mainstream da subito e dobbiamo sempre tenere presente che
negli anni 2004-2005-2006 non c’era praticamente più nulla a cui aggrapparsi.



L’underground era diventato under-underground con numeri purtroppo molto piccoli,
mentre tutti gli artisti di successo della prima era abbandonavano il rap per il rock o la
canzone, tentando di oltrepassare così un confine che evidentemente gli stava stretto.
Migravano verso altri generi da una terra ormai divenuta inospitale. Non ci credeva quasi
più nessuno. Nel 2001 uscì anche l’ultimo numero, annunciato, di Aelle, la rivista di
riferimento della scena italiana mentre le altre due pubblicazioni nazionali come Da Bomb
e Biz avrebbero da lì a poco mollato il colpo. Una nuova generazione di editori
indipendenti stava cercando di rinfocolare quelle ceneri ardenti che ancora bruciavano
sotto l’indifferenza generale del pubblico come Defrag/Basement o Superfly ma i costi
proibitivi della carta e della distribuzione, con un pubblico devoto ma troppo contenuto
quantitativamente, non riuscirono a far sopravvivere le energiche ma piccole case editrici
con i loro bei progetti.
Dunque questi artisti hanno davvero voluto imporsi in un mercato che non li cercava e
non li voleva più, per l’urgenza di continuare a farsi ascoltare, per portare avanti il proprio
discorso. Per nessun altro motivo se non questo. Il successo era tutt’altro che scontato e
la via davvero in salita.
I primi negli anni Novanta ad avere lo stesso Dna del successo popolare sono stati, tra
gli altri, Neffa, Ax/Jad e Tormento/Fish. Questa attitudine naturale al mainstream di cui
parlo la senti impattare nei ritornelli. Quando un rapper tira fuori un ritornello come
Badabum Cha Cha o Aspettando il sole non hai dubbi: sa fare il rap ed è per il
mainstream. Punto. Nessuno gliel’ha suggerito, nessuno gliel’ha scritto. Non c’entra nulla
il «commerciale», la svendita o il pop. Questa cosa o la sai fare o non la sai fare. È un rap
non adulterato che per sua espressione arriva in modo naturale, da sotto a sopra. Ci sono
cose nate per essere mainstream, anche più dopate a livello di marketing, che non
raggiungeranno mai il livello di queste hit inconsapevoli. Ascoltate i ritornelli di Applausi
per Fibra, Spacco tutto, La luce, Dentro alla scatola e Badabum Cha Cha... Tralasciamo il
fatto che oggi, chi non ha i ritornelli se li fa scrivere da altri: questa è la legge della
musica italiana. Le radio italiane vogliono il ritornello italianissimo, sono convinte che il

grande pubblico non riesca a percepire il ritornello non melodico, cantato. Invece credo
che i tempi sarebbero senz’altro maturi per altri tentativi, ma le radio, si sa, non sono
coraggiose per natura; il motivo l’ha spiegato bene Linus in un’intervista su Rolling Stone
nel 2014. «Se mettessi la musica che davvero mi piace, la mia radio l’ascolterebbero in
sei invece che in cinque milioni». I media italiani assecondano il gusto del pubblico, non
lo indirizzano. La mancanza di coraggio di spingersi più in là e di credere nelle proprie
capacità selettive e nella possibilità di contribuire a creare un fenomeno piuttosto che
seguirlo, li rendono simili, con una propria identità ormai difficile da delineare, con i
dovuti distinguo. Tutta questa omogeneità è un caso forse più unico che raro nel mondo,
oserei dire.
Una volta diventava hit solo la canzone rap con il ritornello cantato: Aspettando il sole
con Giuliano Palma, La mia coccinella, Maria Maria, Quelli che benpensano con Riccardo
Sinigallia ecc. ecc. In Italia non abbiamo mai avuto le hit della golden age americana
addirittura SENZA ritornello: You Gots To Chill, Mama Said Knock You Out, Paid In Full,
Me, Myself & I, Fight The Power e centinaia di altre. In America, nel ritornello i rapper


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